A B C D E F G H I J K L M N O P R S T U V W

Sbaglia la scienza? Come?

Come sbaglia la scienza

Sulla copertina di questa settimana della rivista britannica The Economist c’è solo un titolo, scritto a grandi caratteri, che dice “Come sbaglia la scienza”. L’articolo che accompagna la copertina è una severa critica di come sono organizzati i sistemi di revisione e pubblicazione delle ricerche scientifiche: sono diventati caotici, imprecisi e devono essere cambiati per permettere alla ricerca stessa di cambiare, dice l’Economist.

Molte scoperte “sono il risultato di esperimenti di scarsa qualità e di analisi mediocri”. Uno dei problemi è che oggi molte di queste difficilmente possono essere replicate da altri scienziati, e la riproducibilità di un esperimento è alla base del metodo scientifico moderno. Viene citato l’esempio di una società che fa ricerca nelle biotecnologie, e che ha scoperto di poter replicare con precisione solo 6 studi su 53 sul cancro. Altri ricercatori dell’azienda farmaceutica Bayer non sono potuti andare oltre la riproduzione di circa un quarto di 67 studi scientifici già pubblicati. Si stima che tra il 2000 e il 2010 abbiano partecipato a trial clinici circa 80mila pazienti per ricerche che si sono poi svelate inesatte e piene di errori.

È estremamente raro che simili disguidi portino a danni per chi partecipa ai trial clinici, ma le ricerche condotte male costano comunque un sacco di soldi e sottraggono risorse ad altri studi, svolti con maggiore accuratezza. Il problema generale, spiega l’Economist, è in parte dovuto alla crescente concorrenza in ambito scientifico. Dopo la Seconda guerra mondiale, la comunità scientifica era grossomodo costituita da poche centinaia di migliaia di ricercatori: ora si stima che in tutto il mondo ci siano tra i 6 e i 7 milioni di persone impegnate nella ricerca. Chi viene pubblicato sulle riviste scientifiche aumenta le probabilità di essere assunto da qualche grande istituto, con l’opportunità di ottenere contratti molto redditizi.

Il carrierismo, dice l’Economist, incentiva l’esagerazione dei risultati delle ricerche, o la scelta deliberata di mettere in evidenza alcune prove nei paper scientifici nascondendone altre. Per tutelarsi ed essere sicure di avere le esclusive più importanti, le principali riviste scientifiche del mondo tendono a essere sempre più selettive e interessate alle sole scoperte di grande portata. Queste ultime hanno altissime probabilità di essere pubblicate, mentre scoperte laterali, ma altrettanto importanti per l’avanzamento della ricerca, restano in secondo piano e finiscono per essere dimenticate o del tutto trascurate.

Inoltre, le riviste scientifiche danno sempre meno spazio agli studi che falliscono nel dimostrare con la pratica la teoria da cui erano partiti. I risultati “negativi” delle ricerche sono solo il 14 per cento dei contenuti pubblicati sulle riviste scientifiche, nel 1990 la percentuale era pari al 30 per cento. Sapere che cosa è falso, in ambito scientifico (e non solo) è importante quanto conoscere ciò che è vero. “Il fallimento nel dar conto dei fallimenti significa che i ricercatori sprecano denaro e sforzi per esplorare vicoli ciechi di cui si sono già occupati altri scienziati”.

L’articolo di copertina dell’Economist sostiene anche che si è sostanzialmente rotto il “peer review” (“revisione paritaria”), il meccanismo secondo il quale i risultati di una ricerca scientifica devono essere verificati da scienziati estranei a quello studio per provarne l’affidabilità, prima di essere pubblicati. Un’importante rivista medica ha fatto un test, proponendo a un gruppo di revisori alcune ricerche nelle quali erano stati inseriti volutamente degli errori. I revisori non li hanno trovati tutti, nemmeno quando gli è stato detto che il compito a loro assegnato era un test.

Per aggiustare la ricerca scientifica, l’Economist propone di rivedere molti meccanismi, a partire da quello dell’analisi numerica e statistica delle ricerche. Analizzando tendenze e particolari andamenti tra i risultati degli studi scientifici si potrebbero trovare nuove soluzioni, più affidabili: qualcosa di simile è accaduto negli ultimi anni nella ricerca genetica, esempio che dovrebbe essere seguito in altri ambiti. Una maggiore trasparenza e accessibilità ai dati degli esperimenti, sfruttando Internet e le banche dati, aiuterebbe a ridurre il numero di ricerche che si occupano delle stesse cose e contribuirebbe a fare ordine.

Parallelamente, le riviste scientifiche dovrebbero tornare a pubblicare con maggiore costanza le ricerche che hanno fallito nel provare le teorie di partenza. E il meccanismo di “peer review” dovrebbe essere integrato con un sistema di analisi successivo alla pubblicazione, cui possano partecipare i ricercatori attraverso commenti e forum in rete. Un sistema simile è già adottato da tempo negli studi matematici e in quelli che riguardano la fisica, con diversi successi.

La conclusione dell’Economist:

La scienza gode ancora di un enorme – talvolta confuso – rispetto. Ma il suo status è basato sulla capacità di avere ragione la maggior parte delle volte e di sapere correggere i propri errori quando sbaglia qualcosa. E l’Universo non è certo privo di misteri tali da tenere impegnate generazioni di scienziati. Le piste false dovute alla ricerca di bassa qualità sono un imperdonabile ostacolo alla comprensione delle cose del mondo.

Scienza

"La scienza ragazzo mio è fatta di errori. Ma sono errori utili perché passo dopo passo ci portano alla verità" Verne, Viaggio al centro della terra

 

La storia del pensiero scientifico occidentale e il lungo cammino della ricerca scientifica sono stati tracciati da grandi “eretici” creduti in errore, e le cui teorie si sono poi rivelate giuste.

 

Coloro che un tempo furono giudicati folli per le loro tesi, sono coloro che poi hanno cambiato il mondo. Così era ieri e così è ancora oggi. Così è successo per ogni grande innovazione che poi ha trasformato la vita sul nostro pianeta. Un tempo li torturavano, li bruciavano o, nella migliore delle ipotesi, li scomunicavano. Oggi, più semplicemente, non fanno più carriera, perdono il posto e la cattedra o la nomination per il Nobel. Ma anche oggi c’è chi ha il coraggio di andare controcorrente.

 

Forse non tutti hanno la consapevolezza che scienza ufficiale e pregiudizio, nel corso dei secoli, abbiano spesso coinciso formando una terribile coppia. “Ogni concezione scientifica comincia come un’eresia.” fa giustamente notare A. Huxley.

 

Esiste però una minoranza di esseri umani capaci di liberare la propria mente dai dogmatismi e andare controcorrente pur di perseguire le loro idee. Sono luci solitarie ad illuminare le tenebre del pregiudizio, uomini che ieri erano definiti eretici e che oggi definiremmo eccentrici, outsider e anticonformisti.

 

Per secoli e secoli tale minoranza si è battuta con coraggio e determinazione contro l’inviolabilità della scienza ufficiale. Ma essere in minoranza non significa necessariamente essere in errore. Un tempo coloro i quali pensavano che la terra fosse rotonda erano un’esigua minoranza; e ci fu un tempo in cui coloro che pensavano che la stessa girasse intorno al sole erano non molto lontani dalla forca se avessero osato affermare ciò in cui credevano. Per dirla con Ungar: “Le dottrine vigenti esigono spesso una devozione che non tollera l’eresia, e i fatti nuovi che minacciano la sicurezza dello statu quo, possono essere attaccati con il fanatismo intollerante dell’inquisitore.”

 

Non essere allineati a tutto ciò che è “conforme”, essere outsider o remare controcorrente è sempre stato pericoloso in tutte le epoche e in tutti i campi, compreso nella scienza. Chi si discosta dagli schemi convenzionali, rischia infatti di essere escluso dalle pubblicazioni accademiche, di non essere invitato ai convegni internazionali, di non ottenere finanziamenti pubblici e privati, di essere ammonito o richiamato dal proprio ordine professionale e persino di perdere la cattedra.

 

“Se dovessimo contare sulla imparzialità degli scienziati, la scienza, perfino la scienza naturale, sarebbe del tutto impossibile” (Karl Popper, in Miseria dello storicismo). Questa osservazione sottolinea il fatto che gli scienziati sono esseri umani e dunque anch’essi soggetti all’eterno errare humanum est. Non solo, spesso teologi e scienziati hanno contribuito, nel corso dei secoli, a relegare ingiustamente ai margini della loro comunità tanti colleghi, spesso soltanto perché più creativi o innovatori, in altre parole “eretici.” Non solo i pensatori eccentrici ma anche coloro che, pur potendo dimostrare la validità scientifica delle loro scoperte, non sono mai stati creduti, ma anzi ridicolizzati; salvo poi ottenere una riabilitazione, ovviamente postuma. Quelle di Galileo Galilei, Giovanni Copernico, Charles Darwin, sono storie ben note.

 

L’assenza di consapevolezza della storia del pensiero scientifico può erroneamente indurre a credere che sia stata la scienza ufficiale ad insegnarci e a tramandarci ciò che oggi è il patrimonio acquisito delle grandi scoperte che hanno migliorato le conoscenze nell’ambito delle scienze umane. Le più grandi innovazioni in quasi tutti i campi del sapere, in astronomia, biologia, cosmologia, filosofia, fisica, matematica, medicina, teologia, e scienze tecnologiche, sono invece la faticosa risultante di lotte, discordie e incomprensioni consumatesi nel corso di secoli tra i “geni eretici”, quasi sempre incompresi, e “scienziati normali”, quasi sempre impregnati di indottrinamenti dogmatici e di pregiudizi formali: “Scientia et potentia humana in idem coincidunt”, per dirla con Francesco Bacone.

 

Scoperte e invenzioni che hanno formato la società in cui viviamo dall’età del ferro ai quark, dal motore a vapore al trapianto di geni, nel fluire del tempo non sempre hanno avuto un percorso lineare.

 

Come ha scritto il Prof. P. A. Rossi in “Razionalità scientifica e pseudoscienze eretiche”: “La storia della scienza è costellata di errori, illusioni, imbrogli, verità in anticipo e anticipi di verità, gli scienziati sono esseri umani che hanno sbagliato, barato e si sono illusi, hanno sacrificato la verità ad ideologie e ad interessi personali, ma spesse volte hanno anche pagato di persona e si sono sacrificati per testimoniare le loro idee contro la violenza della scienza ‘normale’ e contro la prepotenza dei ‘signori della verità’, alcuni hanno perso la vita, altri sono finiti in manicomio, molti più semplicemente sono stati estromessi dalle ‘accademie’. Il cammino della conoscenza può aver avuto, quindi, momenti progressivi e momenti regressivi, flussi, riflussi e ristagni, luci ed ombre, ma neppure la terribile intolleranza che spesso ha avuto origine all’interno della comunità scientifica è mai riuscita ad arrestarne la crescita”. Spesso infatti le idee troppo audaci sono anche troppo scomode perché obbligano a rivedere e a rivoluzionare non solo il proprio modo di pensare, ma anche intere e consolidate linee produttive.

 

Idee che sono apparentemente bizzarre, tesi e proposte non convenzionali, interpretazioni originali e posizioni dissidenti non dovrebbero mai essere considerate come elementi di opposizione al sistema, ma come reali opportunità in quanto capaci di dare nuovi impulsi alla scienza, anche se solo alcune di queste idee, alla fine, si dimostreranno valide.

 

Disdegnare tali idee significa perdere le tracce di una importante scoperta. E’ dunque necessaria una costante attenzione epistemologica nell’ambito delle discipline praticate che deve porre lo studioso in una critica e feconda osmosi dinamica nei confronti del sapere e della conoscenza. Nella storia del pensiero scientifico occidentale molti sono stati gli uomini geniali che si sono scontrati col pensiero scientifico dominante. In questo numero della nostra rivista abbiamo deciso di presentare alcuni personaggi, noti e meno noti, considerati eretici nel passato e le cui scoperte fanno parte dell’attuale patrimonio di conoscenze. Essi sono la testimonianza storica di vitalità di pensiero perché i grandi progressi dell’umanità sono il frutto tanto del suo spirito indagatore quanto del suo spirito critico. Eccovi dunque solo alcuni dei grandi uomini che con le loro idee eretiche hanno cambiato le sorti del genere umano.

 

Prima che le loro tesi e le loro scoperte fossero  riconosciute ed accettate, essi sono stati oltraggiati, derisi, perseguitati, boicottati e osteggiati dalla scienza ufficiale del loro tempo, la stessa che ora si o­nora di averli avuti nei propri ranghi e che, non più memore degli errori commessi, continua magari a perpetuare nel presente gli stessi errori con altri suoi uomini, spesso cieca ma sempre presuntuosamente “signora della verità”.

 

Didatticamente si tende ad illustrare solo i successi ottenuti nel corso della storia delle scienze, ma la verità è un’altra: gli errori degli uomini, non sempre in buona fede, hanno spesso ostacolato il progresso scientifico e tecnico.

 

Molti degli scritti di Gregor Mendel, il monaco che diede inizio alla genetica, vennero cestinati senza essere letti; George Stephenson, inventore della macchina a vapore, fu considerato un “ciarlatano” o un “povero matto” (ad esempio, gli veniva imputato che con la pioggia il fuoco del motore si sarebbe spento, o che l’elevata velocità, sedici miglia orarie, avrebbe causato il delirium furiosum nei viaggiatori…); Ernest Rutherford, che pure indusse contro lo scetticismo della comunità scientifica la prima reazione a catena provocata artificialmente, negò qualsiasi possibilità di ottenere energia dalle trasformazioni degli atomi. E la lista degli infelici è lunga: molti sono gli scienziati screditati dai contemporanei. Addirittura Louis Pasteur è citato in quanto avrebbe adattato i dati dei suoi esperimenti per renderli più probanti.

Proprio questa fu la sorte di Galileo, Newton, Mendel e altri insospettabili mostri sacri della scienza.

 

Scienza ed errore: la teoria falsificazionista popperiana

“Tutta la conoscenza rimane fallibile, congetturale. Non esiste nessuna giustificazione, compresa, beninteso, nessuna giustificazione definitiva di una confutazione. Tuttavia, noi impariamo attraverso confutazioni, cioè attraverso l'eliminazione di errori [...]. La scienza è fallibile perché la scienza è umana”. Karl R. Popper

Bibiliografia

Paolo Parrini, L'empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Roma, Carocci, 2002

Stefano Gattei, La rivoluzione incompiuta di Thomas Kuhn. La tesi dell'incommensurabilità e l'eredità del neopositivismo, Torino, UTET, 2007

Stefano Gattei, Introduzione a Popper, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 190

Luigi Lentini, Il paradigma del sapere. Conoscenza e teoria della conoscenza nell'epistemologia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991

Jürgen Alt, Karl Popper, trad. di B. Agnese, Roma, Carocci, 2004

Roger Newton, La verità della scienza, trad. di M. Ropele, Milano, McGraw-Hill, 1999

La teoria falsificazionista del controllo empirico

di Luigi Lentini 

La teoria 'falsificazionista' del controllo empirico è stata messa a punto da Popper e da lui contrapposta a quella 'verificazionista', elaborata nell’ambito del neopositivismo. Si tratta indubbiamente dei due maggiori tentativi compiuti dall’epistemologia contemporanea di chiarire in modo rigoroso la struttura di quello che può essere considerato il momento cruciale dell’indagine scientifica del mondo.

Per il neopositivismo, ciò che contraddistingue gli asserti fondamentali della scienza - quegli asserti strutturati in sistemi logicamente ordinati, organizzati in sistemi teorici che, esprimendo le 'leggi di natura' e consentendoci di spiegare e prevedere i fenomeni, costituiscono il cuore conoscitivo della scienza - è la loro verificabilità, ossia la loro possibilità di essere verificati sulla base dell’esperienza. Secondo questo punto di vista, insomma, le leggi scientifiche possono essere decise in linea di principio come vere o false (requisito della decidibilità completa) a seconda che siano coerenti o meno con gli asserti osservativi di controllo.

In una tale prospettiva è del tutto conseguente che il controllo empirico, in quanto è un tentativo di giustificare una teoria scientifica, un tentativo di giustificare razionalmente l’accettazione di una teoria, venga inteso come un processo di verificazione, un processo che punta a dimostrare che le teorie scientifiche sono sistemi di proposizioni vere.

Sennonché Popper rileva che tra verificabilità e falsificabilità vi è una fondamentale asimmetria logica, in forza della quale una legge scientifica, che è un'asserzione universale, può essere falsificata anche da un solo caso contrario che si dia nell’esperienza, mentre non può essere verificata da un qualsivoglia numero di casi empirici coerenti con quanto la legge enuncia. Le asserzioni universali - scrive Popper - “non possono mai essere derivate da asserzioni singolari, ma possono venir contraddette da asserzioni singolari. Di conseguenza è possibile, per mezzo di inferenze puramente deduttive (con l'aiuto del modus tollens della logica classica), concludere dalla verità di asserzioni singolari alla falsità di asserzioni universali. Un tale ragionamento, che conclude alla falsità di asserzioni universali, è il solo tipo di inferenza strettamente deduttiva che proceda, per così dire, nella ‘direzione induttiva’; cioè da asserzioni singolari ad asserzioni universali” (K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi, 1970, p. 23).

È proprio in forza di questa asimmetria logica tra verificabilità e falsificabilità che Popper respinge la teoria verificazionista del controllo empirico e caratterizza quest’ultimo come un processo di falsificazione delle teorie. In sostanza, data l’ineludibilità del controllo empirico delle teorie, data l’impossibilità logica di verificare in modo completo le teorie sulla base dell’esperienza, data invece la possibilità logica di falsificare le teorie scientifiche sulla base dell’esperienza, altro non resta che intendere il controllo empirico come un tentativo di falsificazione delle teorie sotto controllo.

Come si vede, nella concezione falsificazionista del controllo empirico l’esperienza viene usata in senso per così dire 'negativo', ossia come base per falsificare le teorie. Tuttavia, essendo il controllo empirico solo un tentativo di falsificazione delle teorie, è ovviamente possibile che tale tentativo fallisca e che le teorie si salvino dalla falsificazione. Il controllo empirico quindi, inteso come tentativo di falsificazione delle teorie, è aperto a due esiti possibili, uno positivo e uno negativo: se il tentativo ha successo, la teoria viene falsificata e, almeno momentaneamente, rigettata; se invece il tentativo di falsificazione fallisce, allora accade che la teoria, corroborata dall’esperienza, viene accettata e, con lo statuto di conoscenza congetturale corroborata, incorporata nel patrimonio della conoscenza umana.

In ogni caso, come si vede, il destino delle teorie scientifiche è deciso dall'esperienza; e in tal senso Popper può riaffermare il fondamentale principio dell'empirismo, secondo cui nella scienza sono solo l'osservazione e l'esperimento che decidono l'accettazione o il rigetto di una teoria.

Scienza sbagliata?

Quando sbagliano i ricercatori, le storie della scienza inesatta

Il neutrino più veloce della luce è solo l'ultimo errore della ricerca: dal 2001 al 2011 le scoperte ritrattate sulle riviste sono cresciute di quindici volte. Per difendersi dalle truffe, le riviste fanno valutare le loro bozze a degli esperti

"È L'ERRORE più grande della mia vita" diceva Einstein della costante cosmologica, un termine introdotto nelle sue equazioni per dare equilibrio all'universo. Ma se lo scienziato avesse atteso gli esperimenti degli Anni '90, avrebbe scoperto di avere torto. Perché la costante cosmologica è oggi considerata predizione del tutto corretta. Anche per gli scienziati di Opera che hanno trovato un connettore male avvitato e un orologio non sincronizzato nel loro esperimento e che dovranno rimettere in discussione le misurazioni sui neutrini più veloci della luce, vale oggi la didascalica massima di Giulio Verne in Viaggio al centro della terra: "La scienza ragazzo mio è fatta di errori. Ma sono errori utili perché passo dopo passo ci portano alla verità". Lo stesso Antonio Ereditato, responsabile di Opera, ieri commentava: "Di quei problemi negli strumenti ci siamo accorti da soli. Ben altra figura avremmo fatto se qualcuno fosse arrivato a indicarceli da fuori, o se avessimo agito con poca trasparenza".

Se è vero che sbagliando la conoscenza ha fatto i suoi progressi (e qualche scienziato è arrivato al Nobel), resta anche indiscusso che fra errore e scivolone la differenza non è da poco. "Da un lato c'è la fesseria, dall'altro quel margine di incertezza che non potrà mai essere eliminato" spiega Giovanni Battimelli, storico della scienza della Sapienza di Roma. "Quando in un esperimento complesso come quelli della fisica odierna ci sono 750mila connessioni elettriche, una finisce sempre per non funzionare".

Lo stesso neutrino - definito "la particella più vicina al niente che esista" - è venuto alla luce in un contesto a dir poco confuso. Il suo papà, il fisico teorico Wolfgang Pauli, veniva preso in giro dai colleghi perché ogni esperimento cui si avvicinava cessava di funzionare. Dopo aver teorizzato l'esistenza del neutrino nel 1920, Pauli per primo scosse la testa e - in uno dei più famosi errori della scienza - scommise una cassa di champagne che nessun esperimento l'avrebbe mai trovato.

Se il connettore male avvitato nel Laboratorio del Gran Sasso ricada fra le fesserie o fra gli sbagli ineludibili resta al momento un segreto ben custodito dalle viscere della montagna abruzzese. "Non sappiamo in che posizione fosse il connettore mentre facevamo le misurazioni" spiega Francesco Terranova, ricercatore di Opera. "Ha fatto registrare delle anomalie dopo che siamo andati a toccarlo per i nostri controlli". Ma visto che nella scienza il principale antidoto contro lo sbagliare è il perseverare, l'esperimento sulla velocità dei neutrini verrà ripetuto in un laboratorio americano, uno giapponese e di nuovo al Gran Sasso. Il fascio partirà dal Cern di Ginevra alla fine del prossimo marzo. E c'è da scommettere che il rivelatore Opera, che il 23 settembre scorso aveva fatto vacillare la teoria della relatività speciale di Einstein, per quella data avrà tutti i connettori ben avvitati e gli orologi sincronizzati.

Nell'arte di inciampare per arrivare alla verità, gli scienziati del Gran Sasso sono d'altronde in buona compagnia. Dal 2001 al 2011 gli studi ritrattati dalle riviste scientifiche dopo la scoperta di un errore si sono moltiplicati di 15 volte (gli articoli pubblicati sono aumentati solo del 14%), rivela uno studio di Reuters e Wall Street Journal. Quando una pubblicazione viene ritirata, stessa sorte subiscono tutti gli esperimenti che su di essa si erano basati successivamente. Ecco perché i dati falsificati su un tipo di vaccino anticancro nel 2011 hanno fatto finire nel cestino altri 18 studi e un decennio di esperimenti alla Mayo Clinic.

Fra gli esempi di scienziati che hanno ragione anche quando hanno torto, c'è poi una storia meno edificante di quella di Einstein ma ugualmente paradossale. La ripercorre David Goodstein nel libro appena uscito da Dedalo Edizioni Il Nobel e l'impostore. Il fisico Robert Millikan non solo era "accusato di sciovinismo, maschilismo, antisemitismo e maltrattamenti nei confronti dei suoi studenti", ma aveva anche la cattiva abitudine di "cucinare" i dati. Pubblicava cioè solo quelli che facevano comodo alle sue illazioni, scartando tutti gli altri. Di vizio in vizio, Millikan arrivò alla misurazione della massa dell'elettrone considerata corretta ancora oggi. E vinse il Nobel nel 1923.

Il suo non fu l'unico riconoscimento dell'Accademia svedese delle scienze offuscato dall'ombra di un errore. Lo stesso Enrico Fermi si fece trascinare da Orso Maria Corbino, fisico e politico durante il Ventennio, verso l'annuncio (errato) della scoperta degli elementi transuranici, ottenuti bombardando atomi pesanti con i neutroni. "La speranza di Corbino - spiega Carlo Bernardini, scienziato dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e della Sapienza - era creare un nuovo elemento da battezzare "Mussolinio". Presto però ci si rese conto che questi atomi hanno una vita media brevissima, e si decise di soprassedere". La scoperta dei transuranici, che rientra tra le motivazioni del pur indiscutibile Nobel, fu smentita dieci giorni dopo l'assegnazione del premio.

Se esperimenti ed errori sono abituati ad andare a braccetto ("Non c'è niente di male, uno dei punti di forza della scienza è la capacità di correggere i suoi sbagli" diceva l'astrofisico Carl Sagan), c'è un dato più preoccupante che emerge da uno studio del Journal of Medical Ethics. Negli studi di medicina e biologia gli errori in buona fede sono raddoppiati tra il 2004 e il 2009, mentre le frodi si sono moltiplicate di sette volte.

L'esempio più ingenuo di medico truffatore è forse quello di William Summerlin dello Sloan-Kettering Cancer Center, che sosteneva di aver trapiantato frammenti di pelle di topolini neri in topolini bianchi senza provocare alcun rigetto. Ma che un giorno del 1974 venne trovato col pennarello in mano (oggi in varie frodi è emerso l'uso di Photoshop). Esistono però anche errori che creano seri problemi alla salute pubblica. Lo studio che dimostrava un legame fra vaccino trivalente e autismo fu pubblicato 13 anni fa dall'autorevole rivista medica inglese The Lancet, provocando in Gran Bretagna un boom di casi di morbillo fra i bambini privi di profilassi. Ci sono voluti 12 anni affinché il giornale ritirasse lo studio e accusasse di "grave scorrettezza professionale" il suo autore Andrew Wakefield, oggi bandito dall'esercizio della medicina.

Il vaccino che la scienza usa per difendere se stessa da frodi e sbagli si chiama "peer review", ed è un filtro usato dalle riviste per pubblicare solo studi a prova di errore. Prima di essere stampate, le bozze degli esperimenti vengono inviate a due o tre esperti (i "referee") che anonimamente e gratuitamente scrivono la loro valutazione. "È un compito che viene preso molto sul serio - spiega Paolo Giubellino, fisico del Cern e dell'Infn che ha svolto il ruolo di referee per diverse riviste - e comporta due o tre giorni di lavoro. Non basta leggere la bozza dell'articolo, bisogna assicurarsi che anche il metodo seguito sia corretto. Quanto a riprodurre i risultati, però, quello è oggettivamente impossibile". Se il peer review serve a mantenere la scienza sul giusto binario, c'è un altro metodo che Bernardini ritiene infallibile: "Il pettegolezzo. Quella degli scienziati è una comunità intellettualmente democratica. Se c'è un truffatore, presto si viene a sapere. E la via più infallibile resta il gossip".

Elena Dusi

Scoprire per sbaglio. Pestalotiopsis Microspora: il fungo che mangia la plastica

Di Giusy Ocello, 4 IX 2013

A volte, una semplice gita può avere dei risvolti inaspettati, com’è successo qualche anno fa ad alcuni studenti della Yale University che, recatisi nelle foreste pluviali dell’Ecuador per un viaggio studio, sono tornati a casa con una scoperta sensazionale: un fungo capace di mangiare la plastica. Il nome è tutto un programma, si chiama Pestalotiopsis Microspora il fungo della foresta Ecuadoriana in grado di corrodere il poliuretano, cioè la comune plastica. La scoperta risale al 2008, quando gli studenti del corso di Scott Strobel, docente di biochimica molecolare presso la Yale University, si recarono in Ecuador per raccogliere alcuni campioni da studiare in laboratorio al fine di esplorare la diversità biologica e chimica degli endofiti. Gli Endofiti sono dei microrganismi molto particolari, che includono batteri e funghi, che vivono all’interno dei tessuti interni delle piante, senza causare loro sintomi di malattia conclamata. Questi organismi penetrano nei loro ospiti dalle superfici esterne e alcuni di essi hanno un ruolo fondamentale nella decomposizione vegetale dopo la morte del tessuto ospite. Il corso universitario sembrò dare frutti insperati: tra gli studenti, infatti, due tornarono a casa con dei risultati molto interessanti. Pria Anand, ad esempio, esaminando i propri campioni, ne individuò uno che, a contatto con il materiale plastico, dava il via a una reazione di degradazione. Fu però Jonathan Russel che scoprì nello specifico l’azione del Pestalotiopsis Microspora, capace non solo di sopravvivere a una dieta a base esclusiva di poliuretano, ma di farlo anche in ambienti anaerobici, tipici delle discariche. In particolare, sembra che il Pestalotiopsis Microspora utilizzi il poliuretano come fonte di cibo, degradandolo attraverso un processo metabolico chiamato bioremediation. In base alle ricerche effettuate e ai campioni rilevati dagli studenti, sembra che anche altri tipi di organismi attivi fossero capaci di “nutrirsi” di poliuretano. Tuttavia solo il Pestalotiopsis Microspora era in grado di farlo in condizioni particolari. Questo fungo, infatti, sarebbe capace di dare il via ai suoi processi metabolici, sia in condizioni anaerobiche (senza ossigeno) che aerobiche (con ossigeno). Condizioni ideali che potrebbero prevedere un possibile utilizzo di questo fungo in ambienti come le discariche di rifiuti. La scoperta fatta da questi studenti potrebbe veramente avere un risvolto molto importante nello smaltimento di rifiuti così difficili da eliminare dall’ambiente. Il Poliuretano, infatti, si ritrova in quantità consistenti nella nostra quotidianità, andando a comporre quel tipo di plastica comune con cui sono realizzati isolanti, fibre sintetiche e sigillanti, apparecchi elettronici ed elettrodomestici. Si tratta di un materiale molto versatile e soprattutto economico, ma decisamente non riciclabile. Utilizzare questo fungo nel processo di smaltimento di questo particolare materiale plastico sarebbe un gran passo in avanti nella battaglia per la salvaguardia dell’ambiente e il biorisanamento.

Sculture sbagliate: mai più senza

La Leninimports.com oltre a vendere litografie, foto d'epoca, stampe d'arte etc. etc. si occupa della vendita online di riproduzioni in scultura di particolari dell'opera di Hieronymus Bosch.

Scuola

Note disciplinari 1

  1. “Non è possibile svolgere la lezione causa olezzo nauseabondo proveniente da luogo ignoto.”
  2. “C.D. aizza i compagni a lanciare penne e gomme verso il sottoscritto.”
  3. “A.C. bacia appassionatamente S.D. mentre S.F. fotografa l’idillio.”
  4. “Per festeggiare la sufficienza in arte L.S. spara un fumogeno dalla finestra dell’aula.”
  5. “A. parla in arabo in classe e non vuole dire il significato in italiano”
  6. “C. disturba la lezione dando testate al muro.”
  7. “L’alunno F.M. ritorna dal bagno dopo 20 minuti dicendo che non lo trovava.”
  8. “R.F. non ha il materiale di musica e tenta di nascondersi agli occhi della docente. Sono delusa.”
  9. “Invito i colleghi docenti della 3^F a fare una riflessione sulla condotta dei propri alunni. La mia è la seguente: Una classe allo sbando!”
  10. “L’alunno D.L. giustifica l’assenza del **/**/**** per: Ha ceduto una diga in Puglia (siamo
  11. in Lombardia)”
  12. “L’alunno A.S. assente il 16/03/2008 motivo: Dovevo picchiare bene il mio cugino”
  13. “S.L. nell’ora di inglese canta con le cuffiette, poi insulta l’insegnante e viene allontanato dalla classe. D.O. di risposta si mette a cantare.”
  14. “L’alunno B.C. lancia bottigliette d’acqua vuote dalla finestra facendo starnuti finti per coprire il rumore”
  15. “L’alunno L.T. rimane in bagno per mezz’ora. Al suo ritorno sostiene di aver aiutato un alunno di quinta che si era perso”
  16. “L’alunno B.D. peregrina senza meta per la classe.”
  17. “L’alunno M.D. giustifica l’assenza del **/11/2008 per: Raccolta olive”
  18. “L’alunno G.P. messaggia con mia figlia in classe e chiede al sottoscritto se è libera questo pomeriggio.”
  19. “L’alunno T.U. butta il proprio banco e la sedia del suo compagno fuori dalla classe per motivi ignoti.”
  20. “L.F. giustifica l’assenza del 24/05/1999 per: Mi sto preparando, con largo anticipo, alla fine del mondo”
  21. “D.L. ‘abbaia’ durante la lezione”
  22. “metà della classe è assente, l’altra metà tenta di convincermi che gli assenti non sono mai esistiti”

Note disciplinari 2

  1. “In 3 B si respira ignoranza”
  2. “La classe interrompe la lezione per tagliare i capelli a G.F.”
  3. “Alla notizia dell’intervento di uno psicologo in classe, M. si alza dal banco, si siede di fronte alla porta e simula comportamenti autistici”
  4. “A.F. ride ininterrottamente da venti minuti e presenta segnali di convulsioni.”
  5. “L’armadio di classe è tagliato a metà.”
  6. “La lavagna è imbrattata di disegni osceni raffiguranti la sottoscritta”
  7. “R.P. si autoestrae un dente nell’ora di filosofia”
  8. “In classe volano patate e altri ortaggi”
  9. “L’auto della professoressa di storia è bersaglio degli sputi di F.S.”

Spaghetti alla Bolognese 1

Un pericoloso “falso storico”

È il piatto più amato dai britannici: secondo le statistiche ne mangiano 670 milioni di porzioni all'anno. Gli americani ne vanno matti, come del resto gli svedesi che lo chiamano och köttfärssås, mentre i danesi og kødsovs. A Tokyo è venduto addirittura nei sandwiches mentre per i cinesi non è altro che la versione occidentale del loro shajiang mian, un piatto tradizionale molto popolare.

Ma per la Cucina italiana non esistono: il ragù alla bolognese va solo con le tagliatelle.

Stiamo parlando degli spaghetti bolognaise o bolognese peraltro recentemente votato come il pasto preferito dagli australiani, i quali non esitano a farlo anche con il Vegemite (quasi immangiabile per i non australiani), oltre ovviamente pomodori in scatola in grande quantità, più il concentrato, più i peperoni e perfino i funghi. Conosciuti come spag bol o spag bog (in Gran Bretagna), "suonano" all'orecchio come italiani, e molti in verità li fanno anche con ingredienti italiani, o meglio, con quelli che percepiscono come tali. 

E allora via con aglio abbondante, olio extravergine di oliva, pomodori pelati cinesi, scadente 'Parmesan”. Poi, disinvoltamente, vi aggiungono tutto quello che capita a tiro: acciughe, piselli, vegetali, formaggi industriali di ogni tipo, e li servono spesso con il garlic bread (pane burro e aglio). I più intraprendenti anche con un uovo fritto. «Puoi metterci dentro quello che hai e comunque saranno buoni», ha scritto in un blog una entusiasta e poco raffinata gastronoma. Ovviamente non è vero, non sono buoni, però la magia sembra funzionare.

In Italia i puristi sono convinti che gli spaghetti bolognese non hanno nulla a che vedere con la cultura culinaria italiana. Qualche tempo fa, Stefano Bonilli, ex direttore del Gambero Rosso e originario di Bologna, ha scritto: «Gli Spaghetti alla bolognese non sono mai esistiti». La linea di attacco? «Gli spaghetti sono pasta secca del sud Italia, a Bologna, abbiamo le tagliatelle fresche, fatte in casa, che vanno con il ragù». 

Forse la confusione viene da una ricetta di 'bolognese” data da Pellegrino Artusi (che era romagnolo) nella sua 'Scienza in cucina”. La bolognese di Artusi, che non è il ragù, include infatti i maccheroni, che sono pasta secca, come gli spaghetti. Si può dunque concludere che gli Spaghetti alla Bolognese vengono da lì? Assolutamente no. Artusi, per cominciare, non mette pomodori nel suo sugo: gli spag bol in giro per il mondo sono a base di salsa di pomodoro, mentre nella ricetta originale della bolognese la presenza dei pomodori è molto limitata.

Insomma, allora, da dove vengono gli spaghetti alla bolognese? Secondo una scuola di pensiero, tutto successe durante la seconda guerra mondiale, quando le colonne di soldati americani (e inglesi) attraversarono l'Emilia Romagna, mangiarono le tagliatelle al ragù e se ne innamorarono. Tornati a casa, chiesero il piatto nei ristoranti italiani delle loro città, e ristoratori poco scrupolosi crearono quel piatto frankestein conosciuto oggi come spaghetti bolognaise. Non ci sono fonti sicure, ma questa versione potrebbe essere vera. Quando inglesi e americani poi ritornarono in Italia come turisti, nel dopoguerra, ordinarono nei ristoranti in Italia i loro beneamati spaghetti bolognaise. 

E i ristoratori italiani glieli diedero, soprattutto nelle città turistiche (Roma, Firenze, Venezia) dove per abbindolare turisti molti sono disposti a fare qualunque cosa. Comunque sia andata, spaghetti bolognaise non sono il piatto originale, sono il falso, il taroccamento. Le tagliatelle al ragù alla bolognese sono l'originale. Questo non toglie che gli spag bol, preparati in maniera corretta, potrebbero anche essere gustosi e addirittura essere considerati figli della cultura culinaria italiana. 

Ad una condizione però: che si usino solo ingredienti di qualità, manipolati secondo le tradizioni italiane (pomodori pelati, pasta, Grana Padano o Parmigiano Reggiano, olio extravergine di oliva...). Quando entrano in ballo (e nel sugo) la salsa Worcestershire o quella tailandese nam pla, stiamo parlando di un'altra cosa che non ha nulla a che vedere con la cucina italiana, anche se il cuoco che usa questi ingredienti negli spaghetti bolognaise è Heston Blumental o Wolfgang Puck. Di recente a Bologna è sorta una associazione, la Balla degli spaghetti bolognese, i cui membri si battono perché la città approfitti dell'eccellente marketing che le fa questo piatto, anche quando è gastronomicamente scorretto.

E proprio per dire no a questi falsi in un un'ola globale in 50 Pasesi, il 17 gennaio i cuochi del Gvci, gruppo virtuale cuochi italiani, cucineranno simultaneamente tagliatelle al ragù bolognese per la Giornata mondiale delle Cucine italiane contro i taroccamenti. Anteprima il 13 a New York con Mario Batali, Italia a Tavola e i fratelli Cerea del ristorante Da Vittorio di Brusaporto (Bg) e il Consorzio dei cuochi di Lombardia

Spaghetti alla Bolognese 2, la vendetta

Balla degli spaghetti alla bolognese

Associazione che gioca sul falso storico

BOLOGNA - La 'Balla degli spaghetti alla bolognese” è un'associazione che ha presentato il proprio programma martedì 30 marzo 2010 a Zola Predosa (Bo) presso Cà La Ghironda, a cui ha fatto seguito una degustazione degli spaghetti alla bolognese e dei prodotti del territorio al ristorante Giocondo. 

Promotori dell'evento Umberto Faedi, presidente della associazione Balla degli spaghetti alla bolognese, e i soci fondatori Giulio Biasion, giornalista, esperto di turismo ed editore, Piero Valdiserra, responsabile marketing e giornalista, Franco Mioni, esperto di cucina internazionale, Neria Rondelli, enogastronoma, Vittorio Spampinato, operatore culturale e imprenditore della ristorazione. 

Il progetto ha lo scopo di promuovere un primo piatto noto in tutto il mondo come 'spaghetti in bolognese sauce” che in Italia è invece considerato un 'falso d'autore” poiché è nota la tradizione emiliana di accompagnare il ragù con le tagliatelle all'uovo e non con gli spaghetti di grano duro. 

Durante la conferenza stampa il presidente e i soci hanno avuto modo di spiegare il perché del nome 'Balla degli spaghetti”. «A Bologna la parola dialettale bâla significa gruppo di amici, combriccola - ha detto Umberto Faedi - e da questo termine deriva l'universitaria 'Balla” intesa in senso goliardico delle tipiche congreghe studentesche. Più di recente il termine è entrato nell'accezione enogastronomica, pensiamo alla Bella balla dell'asparago verde di Altedo, dedita alla valorizzazione di un'area ben definita della bassa bolognese». 

In tempi moderni infine la parola balla significa appunto 'fandonia, finzione” ed è proprio l'insieme di tutte queste connotazioni che ha ispirato il gruppo, come ha affermato PieroValdiserra: «La Balla degli spaghetti gioca volutamente sull'ambiguità. Essa fa quindi riferimento a un raggruppamento di persone del territorio usando un termine storico di territorio (bâla). Tuttavia fa anche riferimento a un piatto tipico fasullo come gli spaghetti alla bolognese. Vogliamo lanciare una provocazione: in un mondo che si prende tanto sul serio perché non usare l'autoironia e lanciare un piatto che non esiste?». 

L'ironia vuole infatti che l'abbinata spaghetti e ragù (chiamato all'estero salsa alla bolognese) sia noto al mondo come un piatto tipico della cucina petroniana. Come ha raccontato Franco Mioni: «Nei miei tanti viaggi in giro per il mondo ho potuto notare che questo primo piatto è servito soprattutto nei ristoranti di target medio-basso con un alto numero di coperti. Inoltre il ragù è vendutissimo nei supermercati in confezioni famiglia. Ma si tratta di un prodotto che ha ben poco a che vedere con la ricetta originale, per cui dovremmo insegnare alle aziende come si fa il vero ragù e inondare il mercato di qualcosa che sia veramente nostro. Sarebbe l'ideale come piatto veloce per le famiglie e per i giovani che amano i piatti pronti». 

L'evento di martedì 30 marzo è poi culminato in una degustazione che ha visto come portata principe gli "spaghetti alla bolognese" seguiti da assaggi di cibi locali quali crescentine, formaggi, mortadella, e dolci tipici, valorizzati da vini rossi e bianchi. Inoltre sono stati comunicati i dati sugli ingredienti: il ragù alla bolognese, adattato per questo abbinamento, e il dato sulla pasta, uno spaghetto di grano duro n° 5. Il ragù si compone di cipolla, carota, sedano, alloro, sale, durelli e fegatini, carne macinata di suino e di manzo, passata e concentrato di pomodoro. 
 
A concludere la serata, molto gradita ai numerosi ospiti, un momento di poesia, ripresa dalle rime di Giorgio Celli: «Gli spaghetti impossibili sono nel vostro piatto con fumante fragranza. Chi non li mangia? è matto!».

Startup

Stop Believing That You Have to Be Perfect

The value of failure has become a mantra in Silicon Valley, with the rise of events like FailCon, a conference “for startup founders to study their own and others’ failures and prepare for success.” Failure, the thinking goes, is an intense form of hands-on education that — when done right —enables you to learn quickly and grow.

Despite the startup world’s enthusiasm, however, there’s often a lingering stigma: it’s less that you’ve tried and failed, and more that you are “a failure.” On a recent book tour supporting theFrench translation of my book, I met dozens of professionals who bemoaned what they viewed as their country’s particularly acute “one strike and you’re out” attitude toward failure. Of course, it’s not just in Europe; failure is still generally taboo almost everywhere in the world.

But the truth is that failure isn’t a rarity experienced by the unlucky few; if we’re honest, it’s a constant — albeit rarely lethal — state of affairs. In fact, it’s likely that you’ve already failed, or will soon (perhaps you launched a product that didn’t sell, were passed over for a promotion, flubbed a presentation, or any of a million other varieties). Here’s how to leverage that setback into even greater success.

Recognize that innovation requires failure. In a world where competitive advantage is increasingly short-lived, as Columbia Business School professor Rita Gunther McGrath hasdescribed, successful companies have to bake innovation into their standard processes. But innovation of any sort entails risk and trying new things — and that mandates failure.  A 100% success rate implies you’re not doing anything new at all. The goal, says Eric Ries of The Lean Startup fame, is to create a minimum viable product that you’ll fully expect to iterate over time. In some ways, it’s a reframing: it’s not so much that you’re creating something (such as a product or service) that failed; it’s that you’re steadily improving a series of drafts.

Own your failure narrative. When I wrote an article a while back about someone involved in the U.S. financial markets and mentioned his indictment — and subsequent exoneration — during the crisis, I received an angry note from his wife: why did you have to include that? Of course, since he’d written about the experience in his own book (providing the most thoughtful and gripping part of the narrative), it hadn’t occurred to me they’d still be trying to keep it quiet. But habits, including the need to appear perfect, are hard to break.

That’s why talking about failure commands so much attention — it’s still shocking in a world that expects a triumphalist narrative. Blogger James Altucher has built a passionate following by writing in almost gory detail about his failures in business and life, including making millions and then losing it all, twice. In his book, The Education of a Value Investor, money manager Guy Spier tells his story of accepting a job soon out of business school at what turns out to be an ethically-challenged investment bank that soon goes down. Even though he didn’t participate in the malfeasance, he was humiliated by the stain on his resume, and grapples with his own naiveté. People might judge him and Altucher for their mistakes. But because they’re the ones telling the story, we’re able to see the world through their eyes, and grasp the full force of their redemption. (Altucher is now more successful than ever as a writer, and since 1997, Spier has run his own investment fund based on cautious, Warren Buffett-inspired principles.)

Understand that failure is an ongoing process. It’s important to recognize that failure is not a “one and done” phenomenon, where you climb the mountain and stay on top. Rather, it’s an ongoing process. On the same day this spring, I was turned down for two different fellowships I had applied for. That doesn’t mean I’m not successful; by other metrics — writing books, speaking, consulting, and teaching for business schools — I’m doing fine. But stretch goals are just that: things outside your wheelhouse that may work out, or not. The goal, as research shows, should be to make “new and different mistakes.” And if we want to make it safer for others to try, we have to be willing to talk about failure in the present tense — not just something that happened to us once, long ago.

We all love irresistible, come-from-behind success stories about “failed” entrepreneurs like Kevin Systrom, who folded his unsuccessful check-in app Burbn and pivoted it into the billion-dollar Instagram, or Ben Silbermann of Pinterest, which began life as a struggling mobile shopping site called Tote. Failure makes success possible, but not because of the eventual possibility for lucrative exits. Rather, failure opens the dialogue to show that we don’t have to be perfect; in fact, we can’t be. We need to speak honestly and openly — to let ourselves be known, so that failure and mistakes are put in their proper context. We can’t be afraid to acknowledge that, if we’re growing, failure isn’t an anomaly. It happens every day.

Storia sbagliata storia dimenticata

di Gilberto Pagani

Il 24-25 settembre 1943 sull’isola di Cefalonia circa 4.500 soldati ed ufficiali italiani furono uccisi dalle truppe germaniche dopo che si erano arresi.

Avevano deciso,  con una consultazione tra le truppe, di resistere all’intimazione tedesca di deporre le armi e dopo una battaglia durata alcuni giorni furono costretti ad arrendersi a causa della sproporzione tra le forze in campo.

Alcune migliaia furono trucidati sui campi di battaglia dopo che si erano arresi, mentre gli ufficiali, in numero di oltre 150, furono condotti davanti ai plotoni di esecuzione e fucilati in seguito ad un preciso ordine di Hitler.

Il processo arriva a così tanti anni di distanza dai fatti in quanto negli anni ‘50 e ‘60 le indagini non furono portate a termine  per ragioni legate al riarmo tedesco e all’adesione all’Italia alla Nato e furono riaperte solo dopo l’apertura dell’armadio della vergogna, in cui erano nascosti centinaia di fascicoli relativi alle stragi naziste in Italia.

L’imputato Alfred Störk, oggi novantenne, partecipò alla fucilazione di 117 ufficiali e alla successiva spoliazione dei cadaveri, come egli stesso ha confessato nel corso di un interrogatorio davanti alla polizia tedesca.

La confessione dell’imputato non è stato ammessa come prova nel processo in quanto egli venne interrogato senza le garanzie previste dal nostro codice di procedura penale; la Procura Militare e le difese delle parti civili si sono opposte a questa decisione del Tribunale Militare, sia pure presa in conformità dell’art. 63 cpp, in quanto si ritiene, nelle circostanze concrete e in assenza di una normativa tedesca sul punto, che debba prevalere l’esigenza di ricerca della verità e di tutela dei diritti delle vittime.

Ci sono comunque negli atti del processo sufficienti elementi per giungere ad una condanna, in quanto lo Störk faceva parte dei reparti di Cacciatori di Montagna, giunti appositamente sull’isola per eseguire l’ordine di Hitler, dopo che si erano tristemente distinti in altri eccidi di massa sul fronte russo.

Nel processo sono presenti tra le altre parti civili Marcella De Negri e Paola Fioretti, figlie di due ufficiali uccisi; al loro va il merito di essersi battute perchè il processo si celebrasse, dopo che per alcuni anni la Procura Militare aveva optato perchè la vicenda fosse trattata nei Tribunali tedeschi, dove però gli imputati (alqcuni dei quali oggi deceduti) furono salvati dalla prescrizione, in quanto l’eccidio di Cefalonia venne considerato “omicidio non aggravato”.

Del resto nessun imputato tedesco è stato condannato in Germania per i crimini commessi nella Seconda Guerra mondiale.

La strage di Cefalonia fu un barbaro eccidio di persone che si erano arrese, fucilate in violazione di tutte le Convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra, che non ha giustificazioni, come del resto stabilito anche nel processo di Norimberga n. 7, che condannò per questo eccidio il comandante della 1ma Divisione di Montagna.

In particolare non può essere considerata esimente l’“aver obbedito agli ordini” in quanto è acclarato che nessun soldato tedesco fu mai punito per essersi rifiutato di eseguire un ordine criminale, e ciò è stato anche confermato nel processo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

Pure se una condanna resa a 70 anni danni dai fatti non avrà conseguenze pratiche su un imputato novantenne (anche perchè la Germania non  ha mai accettato di estradare i criminali di guerra) essa servirà come monito per coloro che ancora oggi in molte parti del mondo si macchiano di  crimini di guerra e contro l’umanità.

Strano ma vero

Supereroi

Errore e fumetti

Diversi supereroi sono frutto di un errore scientifico

L'uomo ragno. Durante una dimostrazione sull'energia nucleare e la radioattività, un ragno viene investito dalle radiazioni e cade sulla mano di Peter Parker, mordendolo prima di morire. Erediterà dei poteri dal ragno radioattivo: agilità e forza proporzionali a quelle dell'aracnide, capacità di aderire alle pareti, il "senso di ragno" che lo renderà capace di percepire anticipatamente.

Atom, Raymond "Ray" Palmer, professore di fisica durante una gita in macchina scopre un frammento di nana bianca, materia stellare supercompressa. Usando questo materiale inventa uno strumento in grado di rimpicciolire la materia, il cui effetto collaterale consiste nel di farla esplodere dopo due minuti. Durante una spedizione archeologica sarà costretto a usare e testare la propria invenzione su di se perché l'ingresso della caverna crollerà, lasciando intrappolato lui e la fidanzata al suo interno.

Capitan America divenne un supereroe in seguito a una serie di iniezioni di un siero del “super soldato” oggi probabilmente si parlerebbe di stereoidi

Superman Viene dallo spazio e consegue una laurea ad honorem in super scienze all'università di ingegneria di Metropolis

Alcuni autori di fumetti avevano un passato da scrittori di fantascienza ed erano una miniera di conoscenze rare di storia scienze naturali. Spesso sono illustrate correttamente le varie applicazioni dei principi della fisica.

Clelia Sedda